Penso sia importante che un articolo sul veleggiare come terapia per riequilibrare il proprio stato d’animo  

figuri tra i primi del ritorno – con una nuova veste – del nostro “glorioso giornalino”.

Veleggiare non è solo fuggire e lasciarsi tutto alle spalle. Memorabile è la fuga di gruppo in barca del film “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e che tutti noi ricordiamo con una certa nostalgia. Sono più propenso a credere che questa meravigliosa passione rappresenti la chiave per rinsaldare rapporti, amicizie, legami che tendono a volte a passare in secondo piano in una realtà sempre più proiettata al successo individuale.

E lo percepiamo bene dopo ogni crociera, quando la  sede è tutta un brulicare di incontri, abbracci, risate, ricordi,  scambi di impressioni e di sensazioni vissute.

Vela, terapia ideale quindi per consolidare i rapporti di gruppo e certamente ogni volta che ci imbarchiamo ci viene richiesto un certo sforzo per condividere spazi e momenti con persone che magari poco conosciamo per finire  poi, tra un bicchiere e l’altro, a fissare momenti irrinunciabili e forse irripetibili.

Terapia di gruppo come nel film “Sottovento” di Stefano Vicario con  Claudio Amendola nel ruolo di skipper che riceve l’incarico da parte di un noto psichiatra di portare in crociera per sei mesi una “sporca masnada”, sette ventenni variamente disturbati, dall’asociale alla tossica, dal violento al cleptomane ed è proprio il coinvolgimento nelle responsabilità, durante la navigazione, che fa crescere la fiducia individuale.

E da qualche anno varie associazioni si sono rivolte al mondo della vela per offrire opportunità per migliorare la riabilitazione fisica, psichica e sociale dei propri associati consci del fatto che l’integrazione favorisce il recupero dell’individuo in tutta la sua completezza. E anche il nostro gruppo, grazie in particolare agli amici Diego, Gianni, Giorgio e ad una fantastica fisioterapista,  in questi anni   ha contribuito e sta contribuendo con entusiasmo ed impegno a portare avanti queste iniziative.

E la terapia non è “da prescriversi” solo al gruppo. Il silenzio della navigazione in solitario, rotto solo dal ritmato sciabordio dell’acqua sullo scafo,  rappresenta il momento di più intensa analisi individuale. Analisi interiore per affrontare preparati e consapevoli quello che in  barca si presenta  e che deve essere attentamente colto in anticipo. Da  qui emerge il ruolo preventivo dell’andar per mare.  L’andar per mare da soli ci fa mettere in ordine le cose perché la sequenza dei movimenti e delle manovre non può essere che quella, pena il fallimento della stessa. E, quello che toglie la noia, l’ossessiva ripetitività degli eventi, la costante programmazione è che l’andare in barca è l’essenza della variabilità e delle situazioni nuove: cambi di vento, variare delle condizioni meteo, imprevisti meccanici e fisici. Tutto questo ci aiuta a modularci, a cercare nuovi chiavi interpretative, a resistere nelle situazioni più diverse e a non preoccuparci troppo di fronte ad  eventi imprevisti che portano inevitabilmente a nuove scelte.

Gianmarco Bulighin